Cabine telefoniche, che passione!
Eccoci alla seconda puntata del nostro viaggio nella tecnologia telefonica del passato (trovate la prima qui). Oggi vi raccontiamo la storia delle cabine telefoniche e dei telefoni pubblici, un viaggio nelle abitudini degli italiani lungo più di cinquanta anni. La cabina telefonica e il suo immancabile accessorio, il telefono pubblico, sono stati un componente imprescindibile dell'arredo urbano fino al 2010, quando una delibera dell'Agcom pubblicata in Gazzetta Ufficiale ne dispose la rimozione. Parlando di cabine la prima immagine che viene in mente è sicuramente quella delle iconiche cabine telefoniche inglesi rosse. Queste, insieme alle pillar boxes (le cassette per le lettere), sono diventate uno dei simboli del Regno Unito nel mondo. La cabina telefonica italiana, però, non ha niente da invidiare quanto a storia. Per cabina telefonica si intende un luogo chiuso e delimitato in cui è presente un telefono ad uso pubblico. Le telefonate possono essere pagate con denaro fisico e sistemi elettronici. Per comprendere l'importanza che il telefono pubblico ha rivestito nella società italiana bisogna ritornare agli anni Cinquanta quando comparve la prima cabina telefonica italiana, installata a Milano in Piazza San Babila. Il telefono non era un servizio presente in tutte le case, per cui gli italiani facevano largo uso dei telefoni pubblici. Questi ultimi si trovavano nei luoghi di grande passaggio come bar, alberghi, edicole, uffici delle Poste, eccetera. Per telefonare bisognava pagare (prima o dopo) a una persona preposta e in caso di pagamento posticipato l'importo si deduceva da appositi apparecchi chiamati contascatti che misuravano la durata della chiamata.
Non sempre però telefonare era agevole e soprattutto nei piccoli centri poteva essere difficile reperire un PTP (posto telefonico pubblico) libero. Per rispondere a questa esigenza di comunicazione nacquero le cabine telefoniche pubbliche. Non erano altro che cubicoli chiusi, situati nella pubblica strada, composti da tre pareti e una porta con all'interno un telefono. Rendevano possibile comunicare con tutta la privacy del caso e soprattutto in qualsiasi condizione atmosferica. L'Italia delle grandi emigrazioni di massa verso il Nord Europa e l'America scopre così un modo per restare in contatto con i propri cari lontani.
Le prime cabine telefoniche italiane
La primissima comparsa di un telefono pubblico fuori dai luoghi dove fino ad allora era stato possibile trovarne uno avvenne a Milano nel 1952. L'opera fu a cura della concessionaria STIPEL e rappresentò una piccola rivoluzione sia in termini di abitudini che di geomorfologia. Da quella prima installazione, le cabine telefoniche si diffusero a macchia d'olio in tutta Italia modificando profondamente il territorio e diventando un simbolo della voglia di comunicare di un popolo in piena espansione economica e sociale.
Con l'avvento della SIP le cabine iniziano ad avere un'identità definita. Diventano gialle, per essere visibili e identificabili anche da lontano. Vengono installate letteralmente ovunque e portano il telefono anche là dove non c'era mai stato: le periferie, le piccole comunità montane, le isole, le contrade lontane, si scoprono improvvisamente "connesse". La cabina entra a far parte del quotidiano e se vogliamo anche del folklore: ci si può telefonare, certo, ma anche ripararsi dalle intemperie, affiggere degli annunci personali, usarle come ricovero d'emergenza e tanto altro. Sembravano destinate all'immortalità. Sembravano...
Dentro le cabine: i telefoni pubblici
Complemento ovvio ed essenziale delle cabine sono sempre stati i telefoni. In realtà, la vera evoluzione la vediamo più negli apparecchi che nelle strutture esterne che sostanzialmente rimangono sempre uguali a loro stesse. Cambiano solo nel colore, diventando rosse negli anni '80, e quando ci si accorge che sono difficilmente accessibili ai disabili per cui vengono "aperte". I telefoni, invece, sono un mondo a parte. Oggi sono ambitissimi dai collezionisti, specie se ancora funzionanti, come pezzo di modernariato.
Il telefono U+I
Il primo modello a comparire nelle cabine SIP gialle è quello denominato U+I. L'estetica ricordava il bigrigio di cui abbiamo già parlato, con la stessa cornetta e il disco combinatore e il funzionamento era analogo. U+I sta per "urbane e interurbane", dal momento che questo tipo di telefono permetteva all'utente di telefonare in totale autonomia, senza passare da alcun centralino, effettuando tutti i tipi di chiamate verso qualsiasi destinazione, provvedendo autonomamente al pagamento attraverso gettoni il cui valore era prestabilito. Per riottenere i gettoni inseriti ma non utilizzati, bisognava premere (con una certa forza) un tasto rosso posto sul frontale e recuperarli poi da un'apposita vaschetta. Il modello U+I iniziò a comparire anche nei corridoi di ospedali, caserme, scuole, anche dove non fosse presente una cabina esterna. L'arredamento delle cabine telefoniche si completava con la gettoniera, che era una sorta di "distributore" di gettoni. Inserendo delle monete, la macchina restituiva il controvalore in gettoni utili a telefonare. L'U+I è il primo modello di telefono pubblico a far presa nella memoria di massa, grazie anche al cinema. Nella clip che vi proponiamo, tratta da "No grazie, il caffè mi rende nervoso" di Lodovico Gasparini con Lello Arena e Massimo Troisi (1984), un individuo cerca di fare una telefonata di minacce a un certo Nicola, senza mai riuscirci a causa di divertenti equivoci. Nel primo tentativo, lo vediamo chiamare da una cabina gialla posizionata di fronte alla Basilica di Santa Chiara a Napoli, da un U+I con annessa gettoniera laterale.
In quest'altro filmato, tratto da "Il secondo tragico Fantozzi" di Luciano Salce (1979), il geometra Calboni prova a organizzare un'allegra serata con i ragionieri Fantozzi e Filini reclutando delle fantomatiche amiche con scarso successo. Anche qui vediamo una cabina gialla, un U+I e la gettoniera, che questa volta è spostata più in alto rispetto all'apparecchio.
Il telefono G+M
L'U+I ha condiviso gli ultimi anni della sua vita con un modello analogo che doveva rappresentare la sua naturale evoluzione, ma che fu però meno fortunato. Il G+M (la cui sigla significava "gettone e moneta") presentava una meccanica simile all'U+I con alcune variazioni funzionali. Innanzitutto, come il nome suggerisce, oltre ai gettoni poteva funzionare anche con le monete, nello specifico quelle da 100 e 200 lire. Presentava in alto tre feritoie per i diversi conii, la tastiera sostituiva il disco e la vaschetta raccoglitrice era più grande. Una luce rossa lampeggiava quando il contenitore sottostante era pieno e quindi temporaneamente fuori servizio fino allo svuotamento.
Il G+M doveva essere, almeno nelle intenzioni, robusto e più difficile da manomettere. I furti di monete e gettoni erano all'ordine del giorno e rappresentavano un problema molto sentito per la SIP che oltre che ai mancati introiti doveva far fronte anche ai costi di riparazione dei telefoni danneggiati. Non era raro in quegli anni imbattersi in apparecchi scassinati, specie nelle zone isolate e di poco passaggio. Questo nuovo modello si rivelò più fragile: la forcella che agganciava la cornetta, ad esempio, era il suo punto più debole. Il G+M visse parallelamente all'U+I senza mai sostituirlo davvero, dal momento che era chiaro che ormai erano entrambi obsoleti e non al passo con le esigenze. Una significativa innovazione (e un nuovo fenomeno di costume) stava per nascere con il successivo step, ovvero il telefono Rotor agli inizi degli anni Novanta.
...continua